Sono un uomo malato… Sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo che mi faccia male il fegato. Del resto, non me ne intendo un’acca della mia malattia e non so con certezza che cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono curato mai, sebbene la medicina e i dottori li rispetti. Inoltre, sono anche superstizioso all’estremo; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono sufficientemente istruito per non essere superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare per malignità. Voi altri questo, di sicuro, non lo vorrete capire. Ebbene, io lo capisco. S’intende che non saprei spiegarvi a chi precisamente io faccia dispetto in questo caso con la mia malignità; so benissimo che anche ai dottori non posso in nessuna maniera “fargliela” col non curarmi da loro; so meglio d’ogni altro che con tutto questo danneggio unicamente e solo me stesso e nessun altro. Ma tuttavia, se non mi curo, è per malignità! Se mi fa male il fegato, ebbene, mi faccia pure ancora più male!

Questo l’incipit del romanzo con cui Dostoevskij presenta il protagonista de Memorie dal Sottosuolo, un personaggio senza nome, identità né bandiera.

Leggere le annotazioni de l’uomo del sottosuolo è un po’come sbirciare attraverso una serratura, osservare il lato più intimo, contraddittorio, disperato, bieco dell’essere umano. Tra le righe di Dostoevskij si leggono le smorfie dell’uomo, la sua foga, la postura curva e le contraddizioni; egli discorre della sua verità, che spesso è oggettivamente sbagliata e, talvolta, non è che un distillato di esperienze altrui.

Il protagonista pronuncia uno j’accuse alla voglia di razionalità dell’essere umano; egli rivendica la propria capacità di autodeterminarsi, anche a costo di essere completamente irrazionale e nel torto. Rivendica la paternità della sua superficialità, frutto delle scelte individuali. Egli si illude che solo le persone sciocche possano fare carriera, mentre gli intelligenti sono destinati ad essere lasciati indietro.

Mi tormentava allora anche un’altra circostanza: precisamente, che nessuno mi somigliasse, e di non somigliare a nessuno. Io sono uno solo, e loro sono tutti, pensavo, e mi facevo pensieroso.

La solitudine del protagonista è una scelta, una clausura auto-inflitta per non dover sopportare e manifestare il ribrezzo che gli altri gli provocano. Nonostante ciò l’autore ci permette di spiare il comportamento dell’uomo del sottosuolo in società, come egli si atteggia negli ambienti petroburgesi. Gli avvenimenti sociali diventano un’occasione per cercare di emergere, per risollevarsi dalla propria mediocrità. L’uomo del sottosuolo non vorrebbe essere invisibile, ma è costretto ad esserlo. La sua vita al di fuori del sottosuolo è fatta di rimorso e di tentativi nel emergere dalla palude in cui egli si è sepolto nel corso degli anni. Puntualmente l’emersione non riesce, subentra lo sconforto e l’uomo si infila nuovamente nel suo buco, distante da tutti, dove l’unica minaccia è il disprezzo che il suo domestico prova per lui.

Se dovessi riassumere con una parola il contenuto di questo romanzo direi che parla di solitudine. Il muro che l’uomo si trova davanti sono gli altri, che sono diversi, normali, affaccendati, a volte inconsapevoli e spesso non coscienti.

Loro sono tutti significa che ognuno di loro è solo, tutti siamo soli davanti agli altri, murati dentro noi stessi. Molte volte anche la nostra sofferenza è auto-inflitta, frutto della libere scelte che compiamo, che ci ricordano quanto siamo ancora in grado di autodeterminarci.

L’uomo del sottosuolo ci viene in soccorso: egli è lo sciocco della classe che, tra le righe, pone una domanda di cui chiunque vorrebbe sentire la risposta…

ma quindi, quando si vive?

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