Io ne ho abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano.

Eppure La Peste di Albert Camus non sembra proprio palare di amore, non di passione. Non è di certo uno di quei romanzi in cui si inscena il dolore.

La Peste di Camus è un inno a coloro che sanno mantenere la calma nella tempesta, a coloro che riescono a rosicchiare un pochino d’ordine al disastroso pandemonio che la peste ha creato nelle loro vite.

Orano è una città portuale dell’Algeria, una città indaffarata, frenetica, immersa nelle attivià commerciali quotidiane e nella mondanità. Così assopita ed abbagliata dal ritmo dei giorni da non accorgersi - se non assai tardi - dell’improvvisa epidemia di peste bubbonica che è scoppiata in città. Migliaia di topi moribondi iniziano a popolare le strade della città e ben presto i bollettini riguardanti i cadaveri di topi rinvenuti durante il giorno si trasformano in bollettini assai più struggenti, dove i capi conteggiati non sono più sinistri roditori ma esseri umani.

La Peste è anche la storia del Dottor Rieux, un medico che racconta in terza persona i fatti accaduti in quell’anno e la lotta quotidiana con la malattia, una battaglia impari che la Scienza non riesce a vincere neanche ad epidemia finita.

Un romanzo lugubre, immerso nella penombra delle stanze dove i cittadini in quarantena osservano l’estate e poi l’inverno, come spettatori inebetiti dalla staticità delle giornate. Man mano che la narrazione avanza i cittadini - sempre più sconfortati e rassegnati - rinunciano anche ad esorcizzare il lutto; le strade ed i viali di Orano si spopolano, solo i pochi locali che vendono ancora alcolici registrano qualche sporadico incasso.

Ma La Peste non è una storia di resa, bensì di evoluzione. Non si arrende il forestiero Rambert, che dopo i tentativi di fuga decide di trovare una ragion d’essere all’interno di quel Colosseo sanitario; non si arrende Padre Paneloux e neppure il metodico Grand. Non c’è resa nel triste epilogo di Tarrou o nell’iperbole finale dell’enigmatico Cottard: nessuno sembra gettare la spugna davanti alla muraglia invalicabile dell’epidemia. Sono concessi però saltuari raptus di follia e debolezze momentanee, espedienti narrativi fondamentali per aumentare la risoluzione della narrazione di tanto in tanto.

Quando l’alta marea della peste rientra la città si scioglie in festeggiamenti acciaccati, gli esuli si ricongiungono ai propri cari, i commerci riprendono. La frase nulla sarà più come prima sembra la perifrasi migliore per descrivere l’epilogo del romanzo, che racchiude dentro di se una scia silenziosa di morti, di parole non dette e amicizie incomplete.

Ho trovato questo romanzo glaciale, capace di immortalare emozioni viscerali e scene rivoltanti con compostezza, puntuale nel stroncare sul nascere l’affezione che spesso il lettore può provare nei confronti dei personaggi di un romanzo, senza però mancare di episodi struggenti.

La Peste di Albert Camus è un romanzo che celebra il pragmatismo di chi fa la cosa giusta, spesso per un motivo più futile che non per un ideale o per eroismo. La peste permette di apprezzare il valore dei punti fermi della vita, delle piccole cose che scandiscono il ritmo della nostra esistenza, e non manca di sbeffeggiare un poco i protagonismi, che spesso si addicono a chi resta ma non sa il perchè, ai baciati dalla fortuna. Ma si sa, Fortuna caeca est.

… tutti dicono: “È la peste, abbiamo avuto la peste”. Poco ci manca che vogliono una medaglia. Ma cosa vuol dire la peste? È la vita, punto e basta.

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